venerdì 5 novembre 2010

con Amore e per l'Amore

Scrivo questo post con l'anima straziata, come raramente mi è capitato.
Il perchè potete leggerlo qui.
Lo scrivo perché non so dove altro scrivere, e perché qui altre volte ho parlato di "legami" e "fili". Io ho conosciuto la profondità e l'intensità dell'amore di questa persona, e so che la medesima intensità e profondità ha oggi il suo dolore.
Ma se leggerete, saprete perché sono orgogliosamente fiero di aver condiviso qualche passo sul cammino della vita con questa donna. Le nostre strade si separarono anni fa, poi, nuovamente, son tornate a sfiorarsi per caso da pochi mesi. Sono consapevole che ho ancora molto da imparare da lei.
Ti voglio bene, Vivi.
Ti voglio bene, Giampietro.
Ti voglio bene, Samuele.
Possa l'amore circondarvi sempre.

giovedì 28 ottobre 2010

telefono senza fil(tr)i

Credo che l’osservazione del linguaggio e della sua evoluzione nel perimetro di un gruppo sociale possa fornire un gran numero di informazioni sulle dinamiche del gruppo stesso. A causa del mio lavoro, mi capita di intrattenere rapporti con molti livelli gerarchici di una stessa società, e ho notato che la propagazione di un termine particolare è assai più indicativa per individuare leadership e competenze di qualsiasi complesso organigramma. Ciò non toglie che a volte i risultati siano abbastanza comici. Ad esempio, ho partecipato ad una riunione in cui un importante dirigente utilizzava una parola secondo me orrenda e molto poco comune: nel tentativo di motivare i manager suoi sottoposti, ha sottolineato più volte che l’obiettivo è efficientare i processi aziendali. Poiché questo dirigente è oggettivamente competente e molto stimato, il risultato è stato che la diffusione del termine è stata velocissima ed ha permeato via via gli strati gerarchici, producendo un florilegio di email più simile allo svolgimento del compito “Scrivete un pensierino con la parola efficientare” che all’applicazione di una direttiva aziendale.
Man mano che si scende, si va dal semplice e didascalico “Si ravvisa la necessità di efficientare i processi dell’area XY” fino al più sofisticato ed operativo “Nell’ottica di efficientare le performance del settore XYZ” ed infine, a posteriori, “Declinare l’ efficientamento effettuato nelle procedure XYZW
E io declino…
Efficientamens,
efficientamentis,
efficientamenti…

Scrivo questo post prima che qualcuno degli operativi mi dia il colpo di grazia elencando le efficientamentazioni.
E’ una specie di testamentazione intellettuale, insomma.

giovedì 30 settembre 2010

Penta Rei

Ovvero cinque COSE che, se dovessi privarmene, mi mancherebbero… non necessariamente nell’ordine e senza pretesa di esaustività:
Gli strumenti musicali
Le motociclette
Ahimè, le sigarette
La rete (e uno strumento di accesso alla stessa, ovviamente)
La matita
Perché lo lascio scritto qui? Boh.. magari perché se qualcuno dovesse trovare il modo di andare indietro nel tempo e cambiare l’evoluzione di questa società malata, vorrei che sapesse che queste cose per me sarebbe meglio lasciarle, ecco…

lunedì 27 settembre 2010

zucchero affilato

Ci sono persone speciali, affetti speciali, rapporti speciali, che si nutrono raramente, come gli asceti sulle montagne. A volte senti il bisogno di un pensiero, di una vicinanza, che reprimi per pudore o riservatezza, o per timore di essere in qualche modo frainteso o inopportuno.. ma poi la richiesta ti arriva, puntuale e inaspettata, dall’altra parte. Perché “speciale” vuol dire, in un certo senso, “condiviso”. Sono piccole riduzioni, che conservano e concentrano gli aromi di zucchero e frutta, tratti morbidi di carboncino, scintille di contentezza vera.
Mi piace l’idea del blog, perché, al contrario di mail, sms, telefonate (che sono forme “push”), il blog è una forma di comunicazione “pull” . Il mio messaggio lo lascio qui, lo troverai quando ne avrai voglia, o bisogno, quando cercherai l’abbraccio, la stima, il pensiero che ti è mancato.
Ah, se ti stai chiedendo se è per te… sicuramente lo è!
Sì, anche se non ci conosciamo.
Sì, anche se sei finito qui per caso.

giovedì 23 settembre 2010

I'm happy, I'm feeling glad I got sunshine

Cioè, dico… io capisco che oramai a novembre ci sono i panettoni in tutti i supermercati, e va bene… ma ieri, mentre pranzavo al ristorante, è entrato LO ZAMPOGNARO! Il 22 di settembre! E con tanto di gilet ovino e calzature alla Dolce Remì!
Dopo venti secondi di iniziale stupore, ho DOVUTO dargli dei soldi, se non altro per il coraggio di affermare la propria zampognarità al di fuori del tempo.
E’ per questo che oggi ho una maglietta arancione e due occhiaie improbabili: mancherà anche più di un mese ad Hallowe’en, ma io sono pur sempre una zucca!

mercoledì 22 settembre 2010

venerdì 10 settembre 2010

Collezioni

C’è chi colleziona più o meno qualsiasi cosa, io colleziono frasi che non ho potuto dire.
No, non quelle non dette per timidezza o pudore (che pure ce ne sarebbero), né quelle indicibili per contesto o opportunità (son già molte meno), ma quelle che proprio non posso pronunciare senza mentire a me stesso…
Ci sono pezzi molto comuni ed alquanto dozzinali (ad esempio ”Ti prego, basta Naomi, proseguiamo domani chè stasera non ce la faccio più” giace a prendere polvere sugli scaffali da più di dieci anni), ma ci sono anche pezzi più pregiati ai quali sono sinceramente affezionato.
Uno dei miei preferiti è “Ma cosa ci avrò trovato, in quella là”. Lo tengo dentro una vetrinetta lucida, perché mi piace. Mi piace che quando penso ad una qualsiasi persona che sia stata importante nella mia vita sentimentale (vissuta o semplicemente desiderata, ha poca importanza…), so esattamente perché lo è stata, cosa mi ha colpito, e mi piace soprattutto il fatto che mi colpisca ancora; che non possa incontrare, ascoltare, leggere, in qualche caso solo ricordare queste persone senza che la stessa piacevolezza mi inondi dolcemente. Ho qualche rimpianto, come tutti, qualche irrisolto, ma nessun rancore; e sì, io so sempre cosa ci ho trovato in quella là, perché ce lo trovo ancora. A volte questa cosa è un po’ pesante da gestire emotivamente, lo ammetto, ma non è un tradimento del presente, è solo che certi fili non si spezzano… ed io, modestamente, i fili ho sempre saputo scegliermeli.

giovedì 9 settembre 2010

Mezzo Litro

E’ passato più di qualche anno dall’ultima volta, e me ne vergogno, ma ieri sono andato di nuovo a donare il sangue, ed è una cosa bellissima! Se non altro perché, contrariamente a quanto solitamente accade nella (in)sanità italiana, tutti, medici e infermieri, ti trattano con cortesia, rispetto e gratitudine…
però però…
ci sono le domande… quelle che ti fanno per evitare di trovarsi sacche di plasma inutilizzabile, con evidente spreco di tempo e risorse. Ecco, ieri per la prima volta, quelle domande mi hanno messo in imbarazzo.

“Ha fatto recentemente viaggi in paesi tropicali?” – “No”
“Soggiorni all’estero negli ultimi due anni” – “No”
“Tatuaggi? Piercing?” – “No”
“E’ dedito all’alcool?” – “No”
“Droghe?” – No
“Ha avuto rapporti occasionali o a rischio?” – “No”
“Ha soggiornato recentemente nelle province di Ferrara o Bologna?” – “No”
“Bene, lei è un donatore perfetto!”

Ecco, io sono sicuro che questo è esattamente quello che ha pensato l’omarino in camice seduto di fronte a me, che non c’era niente in fondo ai suoi occhi che esprimesse nulla di diverso da quello che diceva, eppure ho percepito distintamente una vocina che aggiungeva “però, cacchio, che vita di merda!”. E per un secondo, uno solo, mi sono intristito.
Così, mentre il sangue riempiva la sacca, mi sono dato le mie risposte, quelle vere.

"Ho viaggiato su percorsi nel tempo, accettando i rischi e il fascino dell’ignoto e delle possibilità, esplorando mondi creati e distrutti nello spazio di una scelta.
Mi sono ubriacato con le risate di mia figlia, che ora ha un anno, e mi sono promesso di berne ed offrirne almeno un calice ogni giorno, perché quella è una dipendenza vera, non posso più pensare di farne a meno, non so se esiste un gruppo di Buffoni Anonimi, ma io non voglio guarire.
Ho cambiato centinaia di pannolini variamente farciti, e vi assicuro che è un’esperienza lisergica che non ha nulla da invidiare ai più potenti preparati chimici.
Ho avuto rapporti occasionali (e non protetti, per giunta!) con la mia parte femminile, seduto al buio sul divano con la cucciola in braccio e un biberon…
giuro che mi facevo sesso da solo!
I miei amici di Bologna e Ferrara (e anche di altre province, in verità..) non li vedo da tempo, ma ho ricevuto il calore dei loro sorrisi, e ho sorriso per loro, come sempre."
No, io non sono cambiato. E fanculo la vocina.

lunedì 6 settembre 2010

Diavolina

Non mi piace usare la diavolina per accendere il fuoco, lo trovo.. ecco, un po’ come barare...
Nella vecchia casa di pietra di un piccolo paese di montagna, il camino deve essere preparato con cura: un grosso ciocco in fondo, che si consumerà lentamente per fare la brace, due rami ben robusti ai lati, per dare solidità e contenere… poi l’innesco: prima un po’ di carta, quella dei vecchi quotidiani mezzo ingialliti che sono stati conservati all’uopo; non profumano più di rotative o di inchiostro, ma di legnaia e muschio fresco, e a volte ti restituiscono lampi di notizie che sorprendono, ma non feriscono, perché appartengono ad un altro tempo. Vanno appallottolati, quei fogli, valutandone l’umidità tra i polpastrelli, e sistemati al centro, sulle grate di areazione, non troppo pressati, non troppo vicini. Poi un po’ di “fraschette”: corteccia di castagno, residui di piallature, trucioli di denti di sega, un paio di pigne (1), qualche rametto secco di ginepro… intorno alla carta, sopra, ma senza soffocare. Poi ancora i legnetti più esili, perché prendan fuoco facilmente alimentati dalla carta, ma il loro calore sia più intenso e meno effimero, per vincere l’inerzia dei legni più grandi, ed accenderli lentamente. Vanno appoggiati sul ciocco grande e sui due rami robusti che formano l’alveo, perché la carta e le fraschette si consumeranno in fretta, e li lascerebbero cadere al centro dove si consumerebbero senza propagare il fuoco. Infine, via via dei rami sempre più robusti. E poi un fiammifero, due al massimo. Qualche volta funziona, la fiammella si nutre e si espande, altre volte soffoca in un alone buastro, e bisogna ricominciare. Ma è un fallimento buono, perché nella natura dell’alchimia non c’è la garanzia del risultato. Non ci sono lutti da elaborare, solo la consapevolezza che potremmo aver sbagliato qualcosa, ma forse davvero no… forse la legna umida richiede un altro po’ di calore prima di reagire, e la voglia di ricominciare.
A volte succede che il ciocco è lì, pronto a potente, e ha in sé tutto il calore che serve per scaldare le mura fredde di pietra, ma di fraschette proprio non ce n’è più, e bisogna tornare nel bosco a cercarne… ma, si sa, i boschi sono bellissimi la notte, scuri e profondi…



(1)
Sì, lo so, la resina di pino quando brucia produce (oltre ad un profumo eccezionale, acre e pungente) delle particelle cancerogene per inalazione… ma non è che anche gli idrocarburi incombusti della diavolina siano esattamente l’ideale per farsi un aerosol, eh…

venerdì 3 settembre 2010

pietra e metallo

Ho lanciato due o tre sassolini nello stagno, così, per vedere l'effetto che fa.
Poi però, le saldature non son venute granché bene...

strappa il bigliettino!


ci sono giorni in cui mi sento così... e diventa davvero difficile non cedere all'impulso di chiamare debolezze i propri bisogni.

mercoledì 25 agosto 2010

Idrovolina

Oggi si sturma e si dranga, ecco…
Ho sempre sostenuto che bisogna saper rispettare le regole per provare gusto nel trasgredirle, che una trasgressione consapevole sta al caos ignorante come una licenza poetica ad uno svarione grammaticale… Ma nell’impeto, le parole si mischiano senza regole, perché i suoni della tempesta non hanno consapevolezza né desiderio di piacere. Ma distruzione e caos sono imparentati con la creatività, e quindi…
IDROVOLINA!
è solo un caso che abbia una qualche comune radice con il nome di questo blog (che peraltro è stato battezzato qualche giorno prima), però è proprio qui che merita una citazione, per chiudere il cerchio tra casualità e causalità…
Perché sa di Idrolitina, frizzante e fresca, ma anche di idrovolante e di ovolina, è legata all’aria e all’acqua, alla velina che nasconde ma non troppo, alla cellula della vita e a un fungo delizioso o velenosissimo. E’ destrutturazione e nuova sintesi, come un guizzo cubista della lingua, ed uno schiocco di fanfola, è una parola di Rubik, un intarsio su un tappeto persiano.

giovedì 29 luglio 2010

er debbito

Ariva da lontano zompettante
che te nun ce fai caso dall'inizzio,
'na faccia come n'hai già viste tante,
l'innocuo, ingenuo passo der novizzio.

E poi d'un tratto te lo trovi addosso,
i denti conficcati ner polpaccio,
te sta' attaccato come fossi un osso,
c'enciampi come ar pizzo de 'no straccio.

Ma in fonno credi che nun sia malaccio
portasselo dappresso pe 'n pochetto,
segno d'ombrello nell'incavo der braccio...

è 'r tuo, e stava chiuso ner cassetto
ma tu l'hai fatto libbero, er penziero
e l'hai lasciato indietro senza un tetto

Mo' ch'è ricordo e che ritorna fiero
je devi quarche cosa, e te l'ha detto.

Cristalli

Sfioro con le dita il margine del ricordo,
e il sibilo acuto è un canto di sirena
soffiato in una nuvola di tempo,
tra le braccia della luna piena

mercoledì 28 luglio 2010

Er supplì

Nota per i non romani: il supplì è una crocchetta di riso panata e fritta, tipo arancino siciliano, ma senza ragù e piselli… Il riso viene bagnato nel pomodoro, ed all’interno della crocchetta viene inserito un pezzetto di mozzarella od altro formaggio filante. Nel mangiarlo è facile che la mozzarella formi un filo tra il boccone che avete in bocca ed il pezzo che è rimasto nelle vostre mani ormai unte all’inverosimile. Per questo motivo, viene anche tradizionalmente indicato come “supplì al telefono”.
Nota della nota (quindi una mètanota a metà nota…uhm…) per gli appassionati di enigmistica classica: “supplì al telefono” è anche la soluzione di una meravigliosa crittografia mnemonica di Tullio Agostini, il cui esposto recita “Il tamtam (6,2,8)”

Lo piji co’ le mano, è già gelato,
Ma si lo mozzichi senza stacce attento
Te trovi cor palato aroventato
dar core de formaggio che c’è drento

Ormai è tardi, nu’ lo pòi sputà,
Te tocca de mannallo ggiù !
Però quer filo t’è rimasto là
E allora co’ le labbra de Grisù

Tiri, taji, arotoli e risucchi,
ma lui s’allunga, s’assotija e nun se rompe
te devi arenne: hai finito i trucchi

Così lo afferri co’ du dita a monte
E indifferente spezzi quel legame…
E tipo elastico, te lo ritrovi in fronte!


Che sia una corda d'arpa o un crine di violino, c'è sempre un filo che ci lega a ciò che abbiamo assaggiato...
Si può tentare di reciderlo, oppure lasciare che vibri, ogni tanto...

Il barattolo del tempo

Pause che non ho affrontato,
per nessuna regola nè forza, talvolta
o nessun senso per capire…
Cuspidi di spinta, creatività, desiderio,
lacrime sprecate in risate isteriche,
braccia stanche di niente
tutti questi momenti ho raccolto in un barattolo
per oggi che c’è senso e forza,
tele e battaglie,
amori diversi, e sguardi,
e giardini da curare.
Ma il mio albero profuma dei fiori di adesso
e i frutti di ieri
da quel barattolo ho donato al tempo
per allargare il cono d’ombra
di ciò che non è stato
eppure, altrove, è già ricordo.
Sono il collo della clessidra,
il nodo della stringa,
intersezione
di equilibri senza ordine.

Passi

Ho camminato di sera nella tua città
Trascinando per la mano il terrore
e il desiderio di incontrarti.
Con passo da ladro
ho attraversato i vicoli delle ombre,
e con lo sguardo basso,
per non intimidire i ricordi
aggrappati ai mattoni grigi
come amanti clandestini ai fianchi del desiderio.
E sulle lastre di basalto,
ancora calde del sole di agosto,
ha risuonato il mio passo fiero:
con occhi diretti verso la montagna,
ho camminato,
perché ho amato quell’io di noi
così nobile e assoluto.
E accarezzando con passi di cera
la sagoma scura dell’ assenza,
così ho aggredito le scale
su cui ho consumato cenere e parole.
Ma ha la mia forma la ferita dell’anima,
e sulla foto sbiadita dei nostri progetti
c’è un’altra al tuo posto,
è il mio che è rimasto vuoto.

Mizrach

Ti respiro,
d’aria come il ricordo del futuro,
come i profumi del fieno
e il borbottìo della caffettiera
ovunque intorno e dentro.
Umida promessa d’estate,
soffiata via, leggera,
fiocchi d’alito in volute invernali,
resina nel camino
o nuvola seminata di pioggia,
grido d’aiuto o di gioia
ovunque, ovunque intorno
nel turbine con la polvere di me
comunque, d’aria

Bakunin? Prrrrrr!

La memoria anarchica (o anarco selettiva, nella sua enunciazione più sofisticata) è una definizione che utilizzo spesso per giustificare il fatto che io sia talvolta incapace di ricordare nomi e avvenimenti anche poco distanti nel tempo. Ho notato che incontra una approvazione generalizzata e sorrisetti di compiaciuta solidarietà: infatti, oltre ad essere un concetto “Prêt-à-porter” (per dire, al contrario del suo fratello nobile, il “pensiero anarchico”, la memoria anarchica può essere citata anche senza far finta di aver letto Bakunin), è una esperienza vastamente condivisa. Ad esempio, non c’è verso che io ricordi i nomi delle due persone con cui ieri sera ho chiacchierato più di un’ora, ma nel mio cervello ci sono diverse celluline occupate a custodire gelosamente i colori del maglione di un mio compagno delle medie. Ne parlo oggi per due motivi.. il primo è che c’è molto caldo e poco lavoro, combinazione devastante per i miei neuroni alla deriva, il secondo è che ho scoperto da poco che uno dei miei link mnemonici è “bucato”. Avete presente quei fastidiosi messaggi “La pagina richiesta non è più disponibile”?, ecco, più o meno così… Il link c’è, chiarissimo e lampeggiante, la targa della macchina di una persona per me importante, memorizzata senza nessun motivo particolare tanti anni fa, ma ora ho saputo che la macchina non c’è più (o per lo meno ha cambiato proprietario).. . e adesso che me ne faccio di quei numerelli in fila? (la vera domanda sarebbe “cosa me ne facevo prima????”, ma non stiamo a sottilizzare, veh…).
E allora ho deciso di istituire il museo per i ricordi orfani di realtà. Sto raccogliendo fondi.

Il recinto delle istrici trascendenti

Il titolo vi sembra un po’ cervellotico? Bene, è un ottimo inizio, perché, come spesso accade, sto iniziando a scrivere senza sapere dove arriverò né per quali strade: essere preparati al peggio, aiuta!
Il fatto numero uno è che ho letto di recente il delizioso romanzo di Muriel Barbery “L’eleganza del riccio”, superbamente tradotto da Emmanuelle Calliat (Paloma) e Cinzia Poli (Reneè). (*)
Il fatto numero due è che, mio malgrado, ho trovato delle significative similitudini con l’italiano “La solitudine dei numeri primi”, di cui ho scritto, tra l’altro, qui. E’ come se suonassero, in sottofondo, la stessa nota su due ottave differenti: l’incapacità dei personaggi di relazionarsi con il contesto sociale che li circonda diventa in un caso distruzione dell’ interiorità e nell’altro annichilimento esteriore, generando comunque un conflitto che rimane irrisolto. Ciò che più colpisce è quanto acuta e frustrante sia (evidentemente tanto nella società francese che in quella italiana) la percezione della “dittatura della massa”. Se state pensando a Marx ho due notizie per voi, una buona e una cattiva: la buona è che evidentemente conoscete almeno i rudimenti del pensiero filosofico sociale del ‘900, la cattiva è che, purtroppo, non c’entra niente. Ciò che io chiamo dittatura della massa è la pressione sociale ad uniformarsi a modelli prestabiliti. Questa pressione si è tanto più acuita, tanto più la circolazione di notizie ed opinioni si è estesa a comprendere ogni strato sociale (tornerò in seguito su questo concetto). Contemporaneamente, la crescente affidabilità delle statistiche grazie all’aumentata potenza di calcolo disponibile, ha alimentato la pretesa di poter trattare sistemi complessi (compresi i sistemi ad alta interazione interna come i fenomeni sociali) sulla base delle rilevanze statistiche risultanti, generando il proliferare del “pop” (inteso come generica tensione verso una forma espressiva destinata a raggiungere il maggior numero possibile di fruitori: la pop art, la pop music ed oggi, infine, la pop politik).
Questo approccio ha due difetti: il primo è che funziona, sia nelle applicazioni scientifiche (come lo studio dei moti Browniani nei fluidi), sia in quelle macroeconomiche (Modello di Black-Scholes per l’andamento di azioni, derivati e futures). Per capire perché questo sia un difetto nell’applicazione sociale, bisogna giocare a “scopri le analogie”: cosa hanno in comune l’osservazione di un fluido apparentemente fermo e l’analisi “high-level” dei mercati finanziari? Il fatto che l’osservatore sia esterno al sistema e (secondo metodo scientifico) non interagisca con esso. In un simile contesto, le turbolenze interne (dei fluidi o del mercato) non hanno rilevanza alcuna, almeno finché la loro risultante è nulla. Se parliamo di società (intesa come sistema di singoli elementi aggregati da una ragnatela di relazioni), i moti interni sono le variazioni del pay-off che noi riceviamo dall’appartenenza a detto sistema, cioè la nostra felicità e la nostra soddisfazione. Tutt’altro che trascurabile, direi.
Il secondo difetto è quello che porta al paradosso dell’indovina (o delle previsioni auto avveranti), reso famoso da una scena di Matrix (ORACOLO: Oh... E la domanda successiva che ti frullerà nel cervello sarà "lo avrei rotto lo stesso se non avesse detto niente?"). Se si contravviene al metodo scientifico e si usa la statistica per fare previsioni sul fenomeno ed interferire con esso aumentando il proprio pay-off personale, l’evoluzione sarà viziata dall’azione intrapresa: se io prevedo che le azioni della Canestracci Oil saliranno e ne faccio incetta, ciò farà innalzare il valore di quelle azioni, indipendentemente dall’evoluzione naturale del mercato (e dallo stato finanziario della Canestracci Oil), provocando di fatto uno scollamento tra il modello ed il problema. Ovviamente il fenomeno si amplifica quanti più sono i soggetti in grado di avere accesso alla previsione, fino a formare l’opinione condivisa che la Canestracci Oil sia, oltreché un investimento sicuro, una società solida ed affidabile.
Da qui al paradosso di Abilene (lo so, ci sto girando intorno da un sacco di tempo…) il passo è brevissimo: un’opinione pubblicamente condivisa, seppur individualmente contestata sulla base di esperienza reale, è in grado di influenzare i comportamenti dei sottogruppi di un sistema. Riporto qui la favoletta presa da Wikipedia:

Una tranquilla famiglia americana composta da una ragazza, dal marito e dai genitori di lei, stava trascorrendo un afoso pomeriggio estivo a Coleman nel Texas, in una bella casa con giardino, aria condizionata e piscina. Erano in veranda e giocavano a carte. In un momento in cui la conversazione languiva, il suocero se ne uscì con un "Che ne direste di andarcene tutti a cena ad Abilene?" La ragazza, per compiacere il padre, subito disse "Mi pare una bella idea!". Il marito, che pensava alle oltre 50 miglia da passare alla guida con quel caldo, ma non voleva contrastare il suocero, disse alla suocera "Se anche tu sei d'accordo potremmo metterci in macchina". E la suocera "Certo che vengo volentieri, è da parecchio che non vado ad Abilene." Detto fatto si misero in cammino. Il viaggio fu caldo, polveroso, e con molto traffico. Ad Abilene cercarono una pizzeria per mangiare e dopo vari giri per trovare un parcheggio finirono in una trattoria messicana dove mangiarono male e spesero uno sproposito. Sulla via del ritorno bucarono una gomma e stentarono a trovare una stazione di servizio che li aiutasse. Dopo quattro ore si ritrovarono a casa accaldati, stanchi e delusi. Erano sdraiati sui divani ed il vecchio azzardò ambiguamente "È stato un bel tragitto!". La suocera disse che avrebbe preferito rimanere a casa ma che non voleva raffreddare l'entusiasmo degli altri. Anche il marito disse che aveva accettato solo per compiacere gli altri tre. La ragazza aggiunse "Dovevamo essere pazzi a metterci in macchina con questo caldo!". Concluse il suocero "Io l'ho proposto perché mi sembravate annoiati."

In pratica, un gruppo di persone prende una decisione che va contro agli interessi di tutti gli individui del gruppo. È causato da un problema di comunicazione interno al gruppo, per cui ciascun membro crede erroneamente che la propria preferenza sia contraria a quella del gruppo e non prova nemmeno a sollevare obiezioni (sempre da Wikipedia)

Per tornare al nostro riccio, Reneè si spinge ancora un passo più avanti: nasconde agli altri componenti del gruppo il fatto che lei, ad Abilene, non ci volesse proprio andare, e si finge, anzi, entusiasta per uniformarsi all’immagine che il gruppo ha di lei, mentre Paloma fa finta di volerci andare salvo meditare di evitare all’ultimo minuto la partenza a costo di soluzioni drastiche. Eccola, la dittatura della massa, l’impossibilità di contrastare il “tutti pensano che”. Ed ecco, in Mattia, la punizione per il suo diniego: sofferenza, fallimento, solitudine, spesso autoinflitti.
Nell’ambito del management, solitamente, si cerca di mitigare il rischio del paradosso di Abilene formando gruppi di lavoro di estrazione eterogenea , che quindi non condividano un bagaglio di opinioni comuni. Avevo promesso che ci sarei tornato, ed eccomi qui. Immaginate di abitare in un piccolo paese chiamato Frittole, nella Spaturnia Citeriore, in cui, sebbene le preferenze sessuali rispettino la distribuzione statistica del resto del pianeta J-HOP e delle sue principali lune (60% di eterosessuali, 20% di omosessuali, 20% di lamofili)sia considerato esecrabile l’accoppiamento con i lama. Avremo un sottogruppo del sistema Frittole (composto dal 20% della popolazione) che subirà la pressione dei Frittolesi sotto forma di maldicenze, pettegolezzi ed ostacoli vari umani e professionali. Gli elementi di questo gruppo hanno però una possibilità per aumentare il loro pay-off (felicità e soddisfazione): trasferirsi a W-HIP2, la luna più grande di J-HOP, dove la lamofilia è accettata come naturale, né vi è consapevolezza alcuna che da qualche altra parte non lo sia, dato che le comunicazioni sono limitate dalle distanze e dalla cupola di atmosfera artificiale. Almeno così era stato fino all’anno 3112 d.a.i.c.u.r (dall’apparizione dell’invisibile unicorno rosa), quando il geniale scienziato Luconi perfezionò il teletrasporto e la comunicazione mentale. Alcune delle opinioni condivise dai “tutti” locali sono diventate (sebbene diluite nella massa) condivise dal “tutti” globale, e tra queste, malauguratamente, la lamofilia. Esiste ora un sottogruppo assai più grande dell’iniziale 20% dei Frittolesi (composto dai lamofili di J-HOP, quindi il 20% degli abitanti di J-HOP e province imperiali) che subisce una pressione maggiore e non ha possibilità alcuna di aumentare il proprio pay-off nel gioco delle relazioni di appartenenza alla società. Alcuni di loro diventeranno delle Reneè, alcuni delle Paloma, molti dei Mattia. Il sistema rimarrà in equilibrio poiché altri gruppi (i lamofobi) avranno aumentato il loro pay-off, producendo statisticamente una risultante nulla.
L’esempio sulle preferenze sessuali è molto eclatante, ma ovviamente il concetto si può espandere a piacere in molte direzioni, divenendo tanto più invasivo quanto più i modelli si fanno (seguendo il paradosso di Abilene e le previsioni autoavveranti) rigidi, estesi e condivisi, rendendo difficoltosi i moti caotici.
Qual è il trucco per uscirne? Distruggere l’illusione della bassa varianza. Gli statistici assumono (nella maggior parte dei casi, correttamente) che rispetto ad un determinato comportamento (o pulsione) la distribuzione del coefficiente di condivisione sia gaussiana con una certa media calcolabile ed una certa varianza. Ad esempio, tenere un animale in casa è un comportamento che avrà un coefficiente di condivisione medio (diciamo cinque su una scala da uno a dieci). La maggior parte della popolazione avrà un coefficiente di condivisione compreso tra tre e sette (moderatamente favorevoli e moderatamente contrari), ci saranno poi le “code” della campana di Gauss costituite da un lato da quelli che se vedono un panda lo bastonano senza pietà e dall’altro da quelli che hanno in salotto una sezione distaccata dello zoo di Berlino. Questi saranno comunque gruppi poco numerosi: si tratta, in sostanza, di una gaussiana a bassa varianza. Ma contrariamente a quanto accade nei sogni erotici di chi studia i fenomeni di massa, le distribuzioni delle pulsioni e dei comportamenti sociali hanno spesso una varianza molto alta (fino a degenerare in alcuni casi, in distribuzioni – ORRORE- uniformi), tanto è vero che il successo dei libri in questione testimonia che molti di noi si identificano nei personaggi ritenendo di galleggiare nelle code della gaussiana, distinguendosi dalla massa, della quale tuttavia subiscono gli imperativi. Questa grande illusione si autoalimenta con la cultura “pop” che, presumendo di mirare al centro della gaussiana, di fatto forma il gusto e le opinioni allo scopo di diminuire la varianza ed aumentare la propria efficacia “commerciale”.
L’illusione della bassa varianza va distrutta, abbattuta a colpi di pernacchie… Abilene è un posto di merda! E non siate Reneè, vi prego, sarete affascinanti ma infelici, e non migliorerete il mondo intorno a voi per il solo fatto di averlo preso in giro!


* Il riconoscere e saper apprezzare sfumature e virtuosismi della traduzione è un’ attitudine che sto allenando, e per questo dono devo ringraziare la mia amica Gabriella, prima ancora del pur illuminante saggio “Dire quasi la stessa cosa” di Umberto Eco.

Lo zen e l’arte di sollevare il dito medio

Se siete un motociclista, prima o poi qualcuno ve l’avrà chiesto… In genere la fatidica domanda arriva poco dopo gli sguardi sorpresi per il fatto che (NONOSTANTE siate un motociclista) il pollice opponibile vi consenta di impugnare le posate come tutti gli altri, e che riusciate a sostenere una conversazione senza interporre fragorosi rutti tra una frase e l’altra. Ma dai? Un motociclista? Eppure sembrava tanto un bravo ragazzo… Poi, LA domanda: ma hai letto “lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”? Come se la lettura di questo libercolo potesse in qualche modo sdoganare la figura del motociclista brutto sporco e cattivo, costruita nel tempo da letteratura e cinematografia di vario ordine (da “easy rider” a “svalvolati on the road”). Il libercolo in questione è uno scritto del 1974 di Pirsig, in cui l’autore si forza (con la scusa di un viaggio in moto in compagnia del figlio) di descrivere la propria ricerca interiore… A parte la qualità del risultato (personalmente trovo il testo piuttosto palloso), c’entra proprio pochino sia con lo zen che con la motocicletta. Lo metto piuttosto in relazione con la necessità (attraverso l’ostentata lettura di un libro considerato “impegnato”) di giustificare il proprio essere motociclista nelle conversazioni con gli intellettualoidi da salotto. Un po’ come “l’arte della guerra” di Sun Tzu, il più grande, pallosissimo, estenuante concentrato di banalità che abbia mai letto, ma a cui nel tempo è stata conferita un’aura di misticismo, spiritualità e filosofia a mio parere assolutamente posticcia (non per niente è oggi considerato un testo sacro in quei paradigmi di farlocchismo che sono i corsi di formazione dei “patamanager” e che poi sfornano quei “diversamente manager” che conosciamo). Così come non riesco a vedere “arte” in una cosa inevitabilmente sporca come la guerra (devo ancora capire cosa ci sia di artistico in uomini addestrati a non pensare che si uccidono senza sapere il perché, e cosa ancor più grave spesso senza nemmeno domandarselo), per me non c’è proprio nessuno zen nella manutenzione della motocicletta… anzi, devo dire che ho il sospetto che la sequela di irripetibili bestemmie che lancio quando mi trovo unto di grasso come un gladiatore a rincorrere una rondella che non ho idea da dove sia uscita, non mi avvicini alla buddhità. Ma mi rendo conto che è una cosa personale, e che qualcuno lo trova perfino rilassante.
Per cui, se mi vedi nero e sporco con una chiave del 13 in mano, e mi chiedi se ho letto “lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, io ti sorriderò e solleverò lentamente il dito medio… ma non prendertela, non ti sto mandando a quel paese, sto solo attivando il mio diciannovesimo chakra… E’ il Chackra Norris,e la vibrazione interiore del mio io tantrico ti sta prendendo a calci circolari…


P.S.: Se poi passi dal gommista, fatti controllare la pressione della ruota del Karma, che mi pare un po’ sgonfia..

Dr Smaca & Mr Fam

Premessa:
1° Principio della dinamica (Enunciazione di F. Scudieri)
Un sistema di riferimento inerziale è quello in cui un corpo non sottoposto ad alcuna forza permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme.
Corollario 1
La cucina non è un sistema di riferimento inerziale
Corollario 2
No, nemmeno l’angolo cottura

Una mia amica trentina mi ha riportato alla mente lo Smacafam, una delizia carnascialesca tipica di quei luoghi, e fin qui tutto bene… L’incauta, però, ha pubblicato anche la ricetta: avrei mai potuto resistere alla tentazione di provare? Certo che sì, ma ora non stareste leggendo questa cronaca.
Atto Primo, La Preparazione.
Personaggi: l’ingegnere, la trentina, il suino vendicatore
Alla fin fine, sono pur sempre un ingegnere, quindi una meticolosa preparazione di tutto l’occorrente PRIMA di iniziare il lavoro è scritta nel mio corredo genetico. Le macerie DOPO, purtroppo, anche…
Non appena è tutto pronto, si parte. Verso le farine nel recipiente apposito, ed inizio ad aggiungere il latte mescolando allegramente… Nel frattempo aggiungo olio sale e pepe e continuo a mescolare, ma l’impasto mi appare ancora troppo liquido… Capisco che non si sente a suo agio per via della latitudine, e corro ai ripari: recupero un MP3 in cui la suddetta amica vezzosamente ripete la parola “speck”. Dopo un’estenuante sessione di apprendimento logofonetico, ottengo una pronuncia accettabile e torno in cucina a mescolare. Rinvigorito dalla favella amica, l’impasto prende finalmente consistenza… e alè!
Ora la ricetta prevede di aggiungere una luganega fresca sminuzzata, e qui devo aprire una parentesi. Chi ha mangiato con me almeno una volta, sa che io sono uno “psicovegetariano”. Mi spiego… riesco a mangiare la carne solo se posso ragionevolmente illudermi che quello che c’è nel mio piatto non sia un animale morto. Ora, immaginare un albero di fettine panate od un arbusto che produca, invece delle bacche, polpettine al sugo, è alla portata della mia mente; al contrario, quando mi presentano una bistecca talmente sanguinolenta da indurre a pensare che un bravo veterinario potrebbe ancora salvarla, il mio esofago si contrae, e sono costretto a declinare. Potete quindi immaginare il mio stato d’animo mentre taglio il budello della luganega ed inizio a sminuzzarla con le mani. Sebbene senta alle mie spalle l’ombra del suino vendicatore, con la falce fissata all’arto ongulato, la determinazione è forte, e stoicamente termino l’operazione senza voltarmi.
Atto Secondo, la cottura
Personaggi: l’ego gastronomico, il campanellino del forno, Re Salomone
Da qui è tutto in discesa, la pancetta è già cubettata e non mi impressiona, e dopo una passata con la frusta elettrica, l’impasto è cremoso ed omogeneo. Imburro e infarino la teglia, accennando due passi di yodel tanto per restare in tema, e verso il prezioso liquido… Decoro con la restante luganega tagliata a fette ed i cubetti di pancetta, ed inizio ad esaltarmi per il risultato… Rinuncio malvolentieri all’idea di disegnare con uno stuzzicadenti i contorni del Trentino sull’impasto, perché mi rendo conto che sto esagerando, e con gesto coreografico ficco in forno preriscaldato a 200 gradi esatti…
Dopo un po’, nonostante l’assenza di lievito, l’impasto inizia a gonfiarsi (da qui la premessa sulla dinamica della cucina), di pari passo con il mio ego gastronomico… Nonostante il fenomeno inspiegabile, e aiutato dall’odore fantastico che inizia a diffondersi, cado in preda ad un’esaltazione mistica e inizio a guardarmi le mani, artefici di cotanto magico capolavoro. Dopo quaranta minuti, il campanellino del forno mi avverte che la cottura è terminata, ed inizio a rimirarmi la creatura (sono quasi sicuro che in quel momento ho pensato che avrei dovuto darle un nome), ma qui il primo dubbio mi assale: aprire lo sportello o lasciarla raffreddare nel forno spento? Decido per ora di lasciare chiuso, ma dopo dieci minuti sono costretto ad uscire per il pranzo domenicale col parentame, e opto per una decisione salomonica… apro uno spiraglietto ed esco, mentre l’effluvio si spande per tutta la casa.
Atto Terzo, L’Orrore
Personaggi: la medusa, Munch, la costante di gravitazione universale
Non potevo sospettare l’orrore che mi attendeva al rientro… Non mi levo nemmeno la giacca, vado subito in cucina a controllare il mio capolavoro culinario e…. AAAAARGHHHHH!!! Ciò che prima si protendeva verso il cielo in un anelito di elevazione spirituale, una Pentecoste pagana ed olezzante, giace ora accasciato nella teglia come una medusa spiaggiata! Il mio volto si contrae in una smorfia tipo l’urlo di Munch, ed il mio ego si sgretola sotto i colpi della gravità cinica e beffarda. Buio e Silenzio.
Ultimo Atto, l’Ostinazione
Personaggi: gli amici a cena, il metodo scientifico, il vino rosso
Nonostante tutto, decido che l’esperimento merita, per amor del metodo scientifico, la prova finale della forchetta. Così estraggo la medusa dalla teglia e la adagio su un vassoio. Contro ogni legge del buon senso, ostinatamente la presento come antipasto, valutando che, qualora fosse immangiabile, almeno gli amici si consoleranno con il resto della cena. All’esame autoptico, il celenterato scifozoo si presenta di consistenza croccante sulla superficie e morbida all’interno (tipo gateau di patate, per capirci); non lo ricordavo così, ma l’aspetto non è male. Prima di servire, riempio comunque i calici di un vino rosso con molto corpo, e li costringo a bere improvvisando un brindisi improbabile, al solo scopo di inibire le loro papille gustative.
Poi assaggiano, ed accade l’imponderabile: gli amici sembrano apprezzare! Imputo l’accaduto al vino ed alla cortesia che si deve ai padroni di casa, ed assaggio anch’io: il sapore è buono, anche se la consistenza spugnosa dell’interno dovuta all’inaspettata implosione è un po’ fastidiosa… Lo smacafam, incredibilmente, sparisce in poco tempo, e la cena prosegue senza visibili conseguenze.
Conclusione
Ci potrei riprovare, ma non so se ne avrò il coraggio… e sicuramente non quando ho gente a cena!

I primi gemelli

“....due numeri primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero.”
Ok, Giordano ha vinto il premio Strega e tanto di cappello, ma ci sono delle cose che si devono sapere, indipendentemente dal fatto che ci sentiamo Alice o Mattia o, nella grande maggioranza dei casi, una qualche plausibile alchimia di entrambi i reagenti…
Questa metafora della solitudine è tanto squisitamente suggestiva quanto subdolamente bugiarda, e Giordano, come tutti i matematici e i fisici, lo sa bene:per prima cosa, i numeri primi sono definiti nello spazio dei Naturali (N) che, per quanto intuitivo e completo, è uno spazio assolutamente arbitrario. In uno spazio un po’ più aderente alla realtà (che non a caso viene chiamato dei numeri Reali R), nessun numero si sfiora, che sia primo, pari, dispari, razionale, irrazionale o trascendente … ecco, se proprio avessi dovuto scegliere io una metafora per descrivere i rapporti tra le persone (costretto con le spalle al muro), avrei scelto lo spazio dei reali: diversi, distinti, ovunque densi … e per quanto vicini si possano scegliere, se ne può sempre trovare uno in mezzo come una suocera a mettere zizzania!
E se poi avessi voluto darmi delle arie in un salotto con le signore, mi sarei sparato perfino la posa dei Complessi (C) che, come tutti noi, si portano dietro la loro brava parte immaginaria.
Altrimenti posso solo spostare il riferimento e decidere, con equivalente arbitrarietà, di muovermi nel solo spazio dei numeri primi, che peraltro presenta con quello dei naturali alcune significative analogie: è infinito, ordinabile, numerabile, e ci posso perfino definire sopra delle metriche di distanza. Ecco, in questo nuovo spazio i primi si toccano tutti uno con l’altro, e a braccetto procedono verso l’infinità con un bel ghiacciolo al limone in mano (lo spazio è mio e decido io come si devono muovere gli attori, chiaro?)
In questo grande raduno i Primi saltellano in un allegro Sabba, e si riconoscono al buio senza nemmeno bisogno del crivello di Eratostene (che tra l’altro, ha un nome piuttosto inquietante …)
Se nella vita nessuno si tocca sul serio, come nei Reali, possiamo però scegliere di essere arbitrariamente vicini, modificando lo spazio intorno a noi … vi pare poco?
Ognuno crede di essere un po’ speciale, un po’ numero primo, e Giordano solletica lievemente questa illusione nel lettore, ma se c’è una cosa che ho imparato nella vita, è che siamo tutti divisibili, almeno per due… che poi i nostri divisori naturali possano galleggiare in spazi lontani da noi è un altro problema…